Link originale: https://tribunafeminista.elplural.com/2021/03/las-10-falacias-de-la-identidad-de-genero/
Autrice
Maria José Binetti – Dottoressa in Filosofia e Master in studi femminili e di genere – Ricercatrice al CONICET (Argentina) Filosofia contemporanea e Filosofia femminista – Attivista per i diritti delle donne basati sul sesso – Membro della Campagna argentina per il riconoscimento dei diritti delle donne basati sul sesso.
Traduzione di Tilo Pez
10 FALLACIE DELL’IDENTITA’ DI GENERE
La neo-lingua “dell’identità di genere” ha fatto irruzione sulla scena giuridica internazionale come ultimo e gran passo in avanti per l’espansione dei diritti. I Principi di Yogyakarta (1) definiscono l’identità di genere come l’esperienza interiore sentita profondamente, pur non definendo cosa sia per loro il “genere”. Dal momento che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) afferma nei suoi articoli 1 e 2 l’uguaglianza in dignità e diritti di tutti gli esseri umani senza distinzione di “condizione, status, credo e opinione”, se intende che i sentimenti e le rappresentazioni in materia di auto-identificazione sono già contenuti in quelli e quindi, a tutte le persone è garantito il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei loro diritti su base di uguaglianza con gli altri, incluso il diritto di sentire, credere e rappresentare la propria identità come
credere e rappresentare la propria identità come vogliono. Fino qui, la rivendicazione della cosiddetta “identità di genere” rientra pienamente nel quadro giuridico universale.
Tuttavia l’identità di genere che i Principi di Yogyakarta introducono, va ben oltre i diritti già sanciti e pretendono rivendicare la protezione di un insieme di “desideri e fantasie private e personali” la cui legalizzazione andrebbe ad annullare di fatto la validità di tutti quei diritti universali già riconosciuti.
In modo surrettizio e fallace, l’attivismo queer propone la relativizzazione dell’attuale paradigma universale, oggettivo e materiale dei diritti umani universali, per sostituirlo con il paradigma individualista, soggettivo e psico-affettivo “dell’identità di genere”. Così, compaiono una serie di fallacie, ambiguità e incoerenze che mirano a confondere i diritti umani universali quali: libertà di credo, opinione o rappresentazione includendo il diritto al proprio corpo sessuato per sostituirlo con un supposto diritto umano di carattere soggettivo, creduto, percepito o sentito ed essere riconosciuto dalla legge come si fosse una realtà oggettiva e universalmente valida. Passiamo ad analizzare alcune di queste fallacie e le assurdità costruite dalla confusione tra azioni soggettive dai contenuti oggettivi, cioè sulla post verità queer per la quale non esistono fatti reali ma solo interpretazioni soggettive.
Fallacia 1. “L’identità di genere” deve essere legalmente iscritta come “sesso”: “L’identità di genere” pretende essere iscritta nel quadro giuridico internazionale e nazionale come “sesso”. Non ci vuole una grande sottigliezza logica per capire che l’iscrizione di una categoria – i sentimenti soggettivi – nei termini di un’altra – la realtà materiale, pubblica ed evidente del sesso – annulla il significato di entrambe. Questo è infatti l’esplicito obiettivo di Yogyakarta: eliminare la registrazione legale del sesso (principio 31), ma non prima di dotare all’identità di genere -sopratutto dei maschi – delle protezioni legali acquisite dopo anni di lotta da e per il sesso femminile. Registrata come il sesso, l’identità di genere si appropria del quadro politico-giuridico che riconosce e protegge le donne, convertendo solo le donne in un caso identitario e il genere in un diritto universale di tutt* i soggett*, soprattutto per gli uomini che pretendono sentirsi genericamente femminili.
Fallacia 2. Il sesso si autodetermina liberamente: la confusione tra sentimenti soggettivi e fatti oggettivi converte il sesso in una libera scelta esercitata a partire dall’assegnazione culturale del sesso. Siamo liberi di accettare – nel caso “cis” – o rifiutare – nel caso “trans” – l’assegnazione estrinseca e arbitraria della differenza sessuale. La fallacia socio-costruttivista pretende confondere la determinazione del sesso al momento del concepimento, insieme al resto dei cromosomi del DNA – in sé irrevocabile e per il momento scientificamente immodificabili – con modelli epistemici e le classificazioni biologiche, e queste con stereotipi culturali di genere. Tutto sarebbe ugualmente costruibile e determinabile nello stesso modo.
Fallacia 3. Il sesso è privato, l’identità di genere è pubblica: nonostante l’arguzia dei post-modernisti per ridurre il sesso a una finzione culturale, la verità è che si tratta di un’autolimitazione inevitabile. Allora l’operazione ideologica consiste nel dissociare il proprio corpo sessuato dalla costituzione somma-psico-sociale – come si fosse lo stesso identificarsi con qualunque cosa -, disconoscendo il suo carattere soggettivo e identificativo, e quindi eliminandolo del registro pubblico. Ciò che sarebbe socialmente significativo sono i sentimenti immaginari del genere, che devono essere registrati pubblicamente e protetti dalla legge. Il sesso, invece, nonostante il suo carattere oggettivo, evidente e pubblico, deve diventare una questione privata soggetta a leggi di riservatezza e sotto sanzioni in caso di violazione alla privacy.
Fallacia 4. Tutti abbiamo un’identità di genere: secondo la definizione delle Nazioni Unite, il genere consiste nelle attività, ruoli o stereotipi gerarchici e discriminatori attribuiti socialmente ai sessi. Questo suppone che il genere è uno degli elementi sociali che compongono l’identità sessuale degli uomini e delle donne, ma non la totalità di questa identità, che è composta anche da una moltitudine di altri elementi endogeni ed esogeni di caratteri fisici, psicologici ed esistenziali. Tuttavia, per il costruttivismo sociale post-queer, le identificazioni sociali di genere rappresentano la totalità dell’identità sessuale o personale, ridotti in questo modo a “identità di genere”.
Fallacia 5. L’identità viene dall’esterno: secondo il paradigma post-queer, le identificazioni sociali di genere opereranno sui corpi e sulle soggettività, producendoli in maniera estrinseca. Di fronte agli stereotipi di genere, i soggetti possiamo accettarli passivamente – i “cis” -, o reagire contro di essi frammentandoli e ricombinandoli periodicamente – i “trans” -. Lo lamentabile di questo tipo di costruttivismo culturale è che finisce per ridurre i soggetti a prodotti culturali estrinsecamente costruiti. Nessuna istanza personale, bio-psichica o esistenziale è capace di sovrapporsi o trasformare radicalmente i dispositivi di potere che la producono. Nella migliore delle ipotesi è possibile ricombinare indefinitamente i frammenti dissociati e smembrati dell’immaginario “trans”.
Fallacia 6. L’identità di genere se interseca, però non così tanto : la sociologia ci insegna che le identità sociali si interseca con molteplici identificazioni – di genere,
classe, razza, età, etnia, nazionalità, stato civile, altezza, peso, bellezza, occupazione, ecc. ecc. – ognuna delle quali opera intrinsecamente nelle altre ed è allo stesso tempo influenzata da esse. Per esempio, una donna non è astrattamente femmina, ma in ogni caso particolare una donna di colore, povera, proletaria, migrante, vecchia, e così successivamente. Curiosamente, delle innumerevoli identificazioni sociali, solo quella di genere sarebbero liberamente determinabile, mentre il resto rimarrebbe nella sua assegnazione culturale senza alcuna possibilità di definirsi come “cis” o “trans”. Ma come è possibile determinare l’identità di genere in astrazione dalle altre identificazioni? Vi sembra che questo non esclude e discrimina la libera autodeterminazione dalle altre? Ci sarà qualche principio di auto-percezione selettiva che privilegia una variabile sociale rispetto alle altre?
Fallacia 7. I generi sono stereotipi sessisti disseminati: l’identità di genere riduce gli stereotipi sociali che subordinano le donne, però lo fa per l’effetto della frammentazione e smembramento in modo che ognuno possa identificarsi con alcune parti, e disaffezionarsi dalle altre, per ricombinarle fluidamente al ritmo della propria volontà immaginaria. Invece di sradicare gli stereotipi sessisti – come chiede la CEDAW all’articolo 5 – le identità di generiche li reificano, le moltiplicano e li convertono in identità profonde. In sostanza niente è più fisso, stereotipato e reattivo delle cosiddette identità “trans”, le cui parodie sono incapaci di una trasformazione effettiva.
Fallacia 8. La ripetizione compulsiva preforma la realtà generica: l’ideologia queer assume che la ripetizione fonetica della parola – il significante- produce la effettiva realtà della cosa – il significato- per opera di un feticismo sonoro-discorsivo. Da qui la necessità di ripetere compulsivamente l’espressioni e i significanti che normalizzino i significati che si desiderano installare socialmente. Una legione di ripetitori seriali, incaricati dalla lobby di turno, collaborerà magicamente a produrre un nuovo senso della realtà: “le donne trans sono donne”, “le donne trans sono donne”, “le donne sono donne….
Fallacia 9. “Le donne trans sono donne” se smentisce da sé: L’assurdità di affermare che i maschi sono donne o le donne sono maschi si auto-smentisce. Infatti, se gli uomini sono donne e le donne sono uomini, donna e uomo non significano niente e la loro distinzione si annulla da se. Questa operazione di svuotamento e dissoluzione semantica è precisamente la strategia postmoderna, che tenta di convertire il linguaggio in un gioco di significanti vuoti capaci di produrre qualsiasi genere, sesso, corpo o soggettività.
Fallacia 10. Un prodotto del mercato farmaco-tecno-pornografico: non c’è “identità di genere” senza l’industria farmaco-tecno-pornografico produttore di sessi sintetici e cyber-soggettività, a costo di amputazioni, asportazione di organi e intossicazione volontaria. I bambini e gli adolescenti costituiscono una nicchia di particolare interesse commerciale, che si pretende blindare attraverso la criminalizzazione di qualsiasi ingerenza degli adulti nella libera determinazione del genere dei minori. Quindi non è da sorprendersi che big pharma e hig tech siano i grandi sponsor dell’agenda queer, e che questa sia in realtà l’operatrice culturale del neoliberismo.
L’identità di genere, installata dal costruttivismo postmoderno e disseminata dai flussi del capitale globale, cerca oggi di erodere le fondamenta dei diritti umani universali per introdurre in cambio un relativismo individualista che garantisce l’espansione illimitata del mercato sessuale. La verità è che la sostituzione del “sesso” per l'”identità di genere” ha aperto un fronte di conflitto insormontabile con i diritti umani basati sul sesso delle donne, i diritti sessuali di lesbiche, gay e bisessuali, e i diritti umani delle stesse persone che si sentono in altri corpi -qualunque essi siano- e che invece di essere riconosciuti come uguali nella propria condizione psico-affettiva, sono costretti a “essere” culturalmente donne o uomini come tali. Lungi dall’essere un’espansione dei diritti, qua siamo di fronte a una regressione inaccettabile.
Il pensiero e l’attivismo femminista, garante della razionalità, ha oggi il pressante compito di impedire che si naturalizzi questa confusione schizoide tra fantasie soggettive e fatti oggettivi, che il linguaggio si riduca a significanti vuoti o deissi incomunicabili, e che il sistema giuridico, destinato a realizzare l’effettiva uguaglianza, rimanga incastrato sotto l’arbitrio dei desideri privati e degli interessi di un gruppo di pochi.
Note
1. I Princìpi di Yogyakarta (formalmente I Princìpi di Yogyakarta per l’applicazione delle leggi internazionali sui diritti umani in relazione all’orientamento sessuale e identità di genere, in inglese: The Yogyakarta Principles on the Application of International Human Rights Law in Relation to Sexual Orientation and Gender Identity, sono una serie di princìpi per la protezione dei diritti umani in materia di LGBT ossia lesbiche, gay, bisessuali e transgender e della intersessualità contro la violenza e delitto d’onore.[1]
L’origine di questi princìpi è una richiesta da parte di Louise Arbour e della Dichiarazione universale dei diritti umani. Questi princìpi sono stati adottati nel congresso internazionale tenutosi all’Università Gadjah Mada, a Yogyakarta, (Indonesia) dal 6 al 9 novembre 2006 da Commissione internazionale di giuristi, International Service for Human Rights e 29 esperti internazionali di legge sui diritti umani, tra cui Mary Robinson. Questo progetto è stato presentato al Consiglio ONU per i Diritti Umani nel 26 marzo 2007. Questi princìpi sono stati considerati dal Consiglio d’Europa nel documento “Diritti Umani e Identità di Genere”, scritto il 29 luglio 2009. (Wikipedia)